These are the true names of the places – but why it has been thought necessary to name them at all, is more than either you or I can understand. (A Descent Into the Maelström, 1841 by Edgar Allan Poe)
Un attico, vetri azzurri e acciaio satinato. Guardando all'insù, l'occhio si perde in un incanto creato da mille specchi, che riflettendo la luce del sole da altrettanti angoli diversi, creano uno spettacolo indimenticabile. Una dispersione cromatica e luminosa, come se l'intero cielo fosse avvolto in un prisma di cristallo. Rivolgendo lo sguardo verso il basso invece: un variopinto viavai di persone.
La terrazza è arredata in modo moderno e lussuoso, generico. Grandi vasi di piante squadrati e sinuose chaise longues di design color antracite, impermeabili, di rattan sintetico intrecciato a mano. Il parquet è di legno composito grigio eco-compatibile. Sparsi qua e là, senza un ordine apparente, grandi cuscini e tavolini rettangolari di resina, entrambe bianchi.
Un beach bar ai piedi del grattacielo, a una grande tavola rotonda gli ospiti sono seduti in modo ordinato. Una sorta di apatia generale incombe nell'aria, il sole è accecante. E poi il tremore, il sussulto, uno squarcio risucchia tavolo e ospiti, come attraverso l'orifizio d'una clessidra. Il peso della sabbia sembra aumentare esponenzialmente mentre scivola giù, verso l'abisso. Le fondamenta del palazzo cedono.
L'unico sopravvissuto trova rifugio in un altro quartiere, sconosciuto e deserto. Edifici candidi dalle forme geometriche, progettati da computer. Rendering, funzioni matematiche, sequenze di numeri, l'universo di un videogioco. Sotto un solenne cielo blu gelido s'incrociano strade strette, disseminate d'ombre silenziose. Palazzi mai abitati di pietra arenaria e cemento armato chiaro, facciate grezze. Alcune case non ancora finite trasmettono una sensazione di abbandono. S'intravedono sbarre di ferro filettato e una moltitudine di cavi, forse elettrici, scollegati. Il metallo è arrugginito, come se fosse stato esposto alle intemperie per un lungo periodo di tempo. Un simulacro proiettato in quel luogo da un futuro incompleto. Mancano ancora tutte le porte, e le finestre sono aperture buie. All'interno di una delle stanze si trova un sistema di difesa robotizzato. Un complesso macchinario fatto di cavi gialli, rossi e verdi; sensori di movimento e fucili automatici d'assalto, neri e lucidi. Nel mirino la porta d'ingresso. Basta premere il pulsante off e il pericolo svanisce.
Non riesci a muoverti, vorresti essere in mare e lasciarti trasportare dalla corrente. Non importa in che direzione, l'essenziale è non fermarsi, rimanere in movimento. Lasciarsi trasportare dalla marea, procedere al ritmo delle onde, che scorrono sotto il tuo corpo inerte.
Ti sei mai ritrovato in mare durante una tempesta? Quando il vento sibila forte e ti fischia nelle orecchie, il sale brucia gli occhi e riesci a malapena a tenerli aperti. Una momentanea perdita della vista può causare una sensazione di grandissimo sconforto, uno spaesamento che lascia dubitare di tutto. Qualunque riferimento al mondo esterno viene a mancare per un attimo, che pare infinito.
Gira e rigira. Una volta toccato il fondo e scoperto il mistero, non c'è più modo di risalire, di raccontare, di lasciare una traccia di ciò che è stato vissuto. Un colossale vortice nell'acqua, un racconto a cui credere oppure no. Il fantasy si riversa nella realtà e viceversa. Discendere nel vortice, avere l'impressione di non poter risalire, mai più. All'improvviso la calma, la visione della bellezza sublime nella catastrofe. Vorresti fermare l'acqua, un fluido in movimento, poi ti rendi conto che non è possibile. La salvezza è un momento finito, transitorio.
Immagina un mare acerbo, colore verde menta. Una superficie frastagliata dal riverbero della luce del giorno. Un'agitazione incessante, il moto perpetuo delle onde.